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L’equo compenso non è dovuto sui device destinati a professionisti ed imprese
- 03/10/2016
La Legge italiana sul diritto d’autore (con le novità introdotte dal D. Lgs. 9.4.2003 n. 68 e successivi Decreti Ministeriali di attuazione) prevede a carico delle società produttrici o importatrici un contributo (c.d. equo compenso), a favore della Società Italiana degli Autori ed Editori (S.I.A.E.), per ogni apparecchio, prodotto o importato, idoneo alla registrazione di musica e/o video. L’equo compenso si riversa, ovviamente, sul consumatore finale, sia che si tratti di soggetto privato, che di professionista o di azienda.
Tale contributo è finalizzato a compensare il presumibile pregiudizio arrecato agli autori, dalla riproduzione delle opere, a fini privati, da parte degli acquirenti dei device.
Una parte degli interpreti dubitava della compatibilità della normativa italiana con la Direttiva Europea del 22.5.2001 n. 29 sul diritto d’autore (si veda  A. Pavan, Vendita smartphone e tablet: equo compenso al vaglio del giudice amministrativo, in www.altalex.com, 3.10.2014).
Sul punto si è ora recentemente pronunciata la Corte di Giustizia dell’UE, con sentenza 22 settembre 2016, resa al termine della causa C-110/15 (contro il Ministero dei beni artistici e culturali e della S.I.A.E.), dichiarando che la norma italiana si pone in contrasto con il diritto comunitario nella parte in cui non prevede l'assenza di criteri predeterminati che indichino i casi di esenzione ex ante per il versamento dell’equo compenso. Casi, cioè, in cui il contributo non è dovuto, poiché è riconosciuto un utilizzo dei device manifestamente estraneo alla riproduzione privata di musica e video.
È possibile che questa decisione della Corte possa essere fatta valere anche per acquisti passati, portando le imprese e i professionisti a richiedere il rimborso del contributo a suo tempo versato. Le conseguenze sembrano importanti se si considera che solo nel 2015 la S.I.A.E. ha incassato 130 milioni di euro a titolo di equo compenso.
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